Pompei e il Segreto della Porta del Tempo

In questa bellissima opera narrativa di Pasquale Matrone confluiscono e si fondono in maniera perfettamente armonica tre generi letterari diversi: il romanzo d’avventura, il racconto fantastico, e quello che la filologia tedesca chiama Bildungsroman, il romanzo che si prefigge uno scopo educativo nei confronti del lettore, soprattutto giovane, specialmente tramite l’osservazione dell’itinerario formativo, intellettuale e morale, del protagonista.

Gli elementi del romanzo di avventura e del fantasy sono proprio i punti originari da cui la narrazione prende le sue mosse: Marzio, un adolescente inquieto ed esacerbato dalla tesa situazione famigliare (i genitori si sono divisi da poco) va a passare un periodo di vacanza nella assolata e idillica fattoria del nonno Orfeo, non lontano da Pompei, quasi alle pendici del Vesuvio. Qui, nelle sue notti spesso insonni, perlustrando la casa con la curiosità degli adolescenti, alla ricerca, magari, di antichi segreti di famiglia, trova in un armadio un diario stilato molti decenni prima da Lucio, il prete zio di Orfeo e fratello del bisnonno. Questo misterioso manoscritto – letto a lume di candela senza farsi accorgere – e il successivo ritrovamento di quattro talismani-simbolo che Marzio ha visto prima raffigurati in uno strano dipinto (una piccola mano di marmo, una lucerna a forma di barca, una chiave arrugginita e una moneta d’oro del tempo dell’impero romano) lo porteranno ad una successiva strabiliante scoperta: l’esistenza di una porta segreta, mascherata nella cantina della casa, che ben presto si rivela un affascinante, vero e proprio stargate, una magica porta che gli consente, oltrepassandola, di varcare in un batter d’occhio i confini del tempo e di ritrovarsi indietro di quasi due millenni.

Marzio, che non teme i pericoli e non può resistere all’incredibile fascino di un’irripetibile avventura, “sguscia”, per così dire, dalle mani del nonno Orfeo – filosofo e pedagogo che, sinceramente affezionato, aveva appena iniziato ad aiutarlo psicologicamente indicandogli, senza però mai annoiarlo, un fruttuoso percorso di crescita spirituale –  e si trova in tal modo a transitare su una via assolutamente impensabile, in una dimensione surreale eppur vera, stregata e attraente, lontana e ciononostante vicina alla realtà da cui ha preso improvvisamente le distanze, catapultato d’un balzo nella Pompei del 74 dopo Cristo, quando mancano soltanto cinque anni alla devastante e definitiva distruzione della ricca e gaudente città.

Da questo punto in poi l’Autore rivela una straordinaria capacità di ricostruire e di far rivivere sotto i nostri occhi un intero mondo, popolato di fattucchiere e di sacerdotesse, di patrizi e di schiavi, di mercanti e di liberti, di uomini integerrimi e di malfattori, fra botteghe e locande, fra templi e strade nominate ad una ad una, dove Marzio conoscerà ambienti antichissimi eppure nuovi, dove da adolescente diventerà un giovane più maturo, dove il suo tragitto di educazione morale troverà il suo primo vero e solido compimento.

E, cosa che forse più conta e più ci affascina, egli è portato passo a passo alla scoperta che nulla gli viene dato o “aggiunto” dal di fuori: il suo animo profondamente positivo è generato soltanto da lui stesso, nel fondo della sua indole, nelle segrete fibre della sua stessa psiche; e non per gli incontri e le circostanze, fortuite ed esterne, atte a fargli apprendere qualcosa di nuovo. E ciò nel rispetto del vero e proprio significato di educare (cioè ex-ducĕre, “trarre fuori” dall’animo qualcosa di nascosto ma esistente).

Marzio sa rivelare la sua profonda, innata moralità in una delle pagine forse più belle e commoventi di tutto il romanzo: quando, pur di salvare un amico da morte certa, non esita a cedere la sua moneta d’oro, indispensabile “pedaggio” per poter riattraversare la Porta del Tempo e riabbracciare nel mondo reale il nonno Orfeo e gli altri suoi cari: ma per questo altruistico coraggio egli non soccomberà, sarà invece premiato.

Così ancora profondamente ci colpisce il carattere generoso del giovane quando, lui che ben conosce gli eventi futuri, poiché in effetti egli proviene dal futuro, (assolutamente fantastico – a questo proposito – il continuo “slittamento” dei piani temporali nel romanzo, per cui, per assurdo, ciò che è stato domani si sdoppia e si avviluppa surrealmente a ciò che sarà ieri) vorrebbe tanto appassionatamente rivelare agli sventurati pompeiani il terribile disastro che li attende, e quindi spingerli alla fuga e alla salvezza. Ma tutto è vano, egli nemmeno può proferire la verità: la Storia è già compiuta, nulla può essere più rimosso dalla trama del Destino; e Marzio uscirà da quella dimensione assai prima che la ruota inesorabile del Fato tracci ancora il medesimo giro (o forse invece non lo compia, poiché tutto quanto è accaduto nel tempo lontano non ha alcuna possibilità di replica?…). Logica ed assurdo si incrociano, in questa fantastica narrazione, per giungere nelle ultime pagine ad uno scioglimento positivo, felice, in apparenza tutto o quasi tutto contenuto nella cornice della più matematica razionalità: scopriamo alla fine che Marzio ha solo sognato; anzi, il suo fantastico viaggio è avvenuto durante un coma di quattro giorni, per una malattia pericolosa, grazie al Cielo guarita dalla bravura del chirurgo Magonio (o non, piuttosto, dalle arti magiche del Chirurgo-Mago che nell’antica Pompei l’ ha preso sotto la sua protezione? Oppure ancora, addirittura, dallo straordinario intervento di Iside – essere materno e dolcissimo, che nel singolare sincretismo religioso dominante nel romanzo diviene proprio figura, come avrebbe detto il grande filologo Erich Auerbach, vale a dire anticipazione, pagano prototipo di Maria di Nazareth – la quale ha saputo arrestare, con il suo immenso e benefico potere, la tragica spola delle Parche?…). Il lettore può scegliere, fra le diverse possibilità che l’Autore prospetta e sottintende, quella che più predilige, che è più congeniale alla sua propensione fantastica.

Ma questo finale “aperto” lascia pur sempre all’attento lettore un unico, imprescindibile e inequivocabile messaggio: il lungo cammino che conduce all’accurata conoscenza della verità (non importa in quale tempo situato, poiché il Tempo assoluto è di per sé stesso senza divenire, eterno) è un percorso di crescita, di evoluzione interiore, e soprattutto è conquista di una salda dirittura morale che non sarà facile distruggere: Marzio, che quasi per miracolo esce illeso dal coma e dalla malattia, “rinasce” invece sostanzialmente diverso, profondamente rinnovato al termine del viaggio. Come già Pinocchio, nel famosissimo racconto di Collodi, non è più, alla fine, l’originario burattino sempre in balìa delle sue infantili passioni, delle fatue e disparate curiosità, o anche dei capricci, delle decisioni oppure delle azioni più o meno giuste degli altri, così anche Marzio è divenuto in fondo una “persona adulta”, seria e intimamente mutata (molto significativo, a tal proposito, il fatto che a un certo punto del romanzo il suo stesso linguaggio cambi sensibilmente); ormai consapevole del fatto che ognuno di noi non è mai, nella sua vita, un essere qualsiasi, perché in realtà è sempre portatore, anche a sua insaputa, di una missione validissima e spesso salvifica che deve soltanto pazientemente ricercare e scoprire.

Marzio è quindi pronto ad essere – secondo il famoso detto dei Romani – faber suae fortunae, artefice lui del proprio destino; e anche, in più, capace di modificare positivamente gli eventi: in tal senso la sua finale guarigione e anche la conclusiva riappacificazione dei suoi genitori sono da leggere sotto un aspetto più profondo, e non troppo banalmente come un semplice e scontato lieto fine della vicenda.

Resta da sottolineare il passo spedito, agilissimo della narrazione: una storia che ha qualcosa di importante da dire, in ogni pagina, e che pertanto corre veloce senza perdersi in inutili descrizioni – non esistono, ad esempio, raffigurazioni dettagliate di particolari fisici dei personaggi oppure di ricche vesti e gioielli – né in considerazioni e digressioni inutili allo scopo che fin dal principio si prefigge. Non mancano, al contrario, bellissimi squarci lirici e spesso una rapita, direi quasi innamorata contemplazione del paesaggio, che diviene all’improvviso autentica, pura poesia in prosa. Ciò non può meravigliare, del resto, in uno scrittore che è da molti anni educatore e storico, ma anche ottimo poeta.

Un romanzo, dunque, che si rivela piacevolissimo per gli adulti così come si dimostra colmo di fantastiche avventure ma, non meno, di saggi e profondi insegnamenti per i ragazzi. Una storia antica e moderna, semplice e insieme complicatissima, costituita da vicende straordinarie e impensate; non scevra, talora, di una certa lieve vena comica.

Trapuntato da “sospensioni, incanti e suspense” (Lenisa), questo racconto riesce alfine ad attuare, nella alata sicurezza e nella sapienza della scrittura narrativa, la capacità che spesso la scuola di oggi, per incuria o per ignoranza, evita o sconsidera: quella di saper sempre e davvero delectando docēre.

Marina Caracciolo ( scrittrice, poetessa e saggista)

(La Nuova Tribuna Letteraria, n° 79, 2005)

Caracciolo Marina - -

 
 
 
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