Pompei e il Segreto della Porta del Tempo

E’ già tutto nel titolo il fascino di questo bellissimo romanzo di Pasquale Matrone, scrittore non nuovo per la capacità di sedurre e attrarre il lettore nel cerchio magico della sua arte narrativa e di sorprenderlo con veri e propri “colpi di scena” e situazioni imprevedibili e inaspettate.

La Pompei degli anni precedenti il 79 d.C., nella appassionata, eppure attenta ed esperta ricostruzione di Matrone, è il luogo reale e onirico in cui è ambientata gran parte della vicenda, che si dipana anch’essa e, per così dire, si sdoppia sui due piani della realtà e della surrealtà. Una Pompei storica e mitica insieme, città morta ma incredibilmente palpitante per le mille attrattive e i mille misteri che le sue rovine nascondono, ma possono anche rivelare, nell’inquietante fissità del tempo, fermatosi a quel terribile 79 d.C.

Accattivante e intrigante il Segreto promesso, che il lettore è curioso di scoprire e disvelare, nello sfogliare con le mani del pensiero le pagine di questo libro, che pian piano capirà non essere altro da sé, ma suo personale percorso esistenziale.

 E per provarlo, deve anche lui accostarsi e attraversare quella porta, che è passaggio, iniziazione, esperienza… di vita e di morte, e anche di morte e di vita, in un feedback apparentemente paradossale, in realtà vero e autentico nella dimensione dell’eternità, in quel “perenne e inarrestabile fluire di tutte le cose”, di cui nonno Orfeo parla a suo nipote Marzio. 

E poi c’è il tempo, evidenziato nel titolo, non quello segnato dalle lancette di una vecchia sveglia o di un orologio che all’improvviso si ferma e resta immobile, ma  l’ “unico punto piccolissimo e immenso in cui passato, presente e futuro si intrecciano e si confondono”, l’attimo immenso, il tempo interiore che permette incontri ed esperienze altrimenti impossibili, il flusso della coscienza e anche dell’inconscio, sulla cui onda si può navigare oltre, al di là del mondo sensibile e della mera terrestrità, e andare in un territorio altro, arcano, eterno, dove il silenzio del mistero si squarcia, per lasciare il posto ad “una verità impensabile e sconvolgente”.

In questo tempo senza tempo, nella scenografia di un luogo, che non è necessariamente reale, ma spazio interiore, si sviluppa la trama di un racconto avvincente, sospeso nella tensione di una atmosfera magica, carica di presagi e attese, dove tutto diventa simbolo e suggestione.

Così i nomi dei personaggi, lungi dall’essere casuali, hanno in sé un significato, recano un destino, che è insieme impegno e avventura, scoperta e affermazione di sé, in armonia con il resto del mondo e dell’universo sensibile e sovrasensibile. Lucio, Luca, Marzio, Alessia sono “nomi che suonano bene e che promettono ancora meglio” per la loro carica semantica; non a caso i primi due con il loro significato illuminante appartengono a due persone morte, a indicare la funzione preziosa che ha appunto la morte nell’itinerario della vita: essa “ci aiuta a capirne l’importanza; ci ricorda che ogni nostra giornata va vissuta intensamente e che ogni istante è prezioso e va catturato e riempito di luce e di calore”; gli altri due rimandano alla sfera semantica della lotta e della difesa nell’affrontare il cammino esistenziale, nel tentativo, quanto mai difficile, ma imprescindibile, di conoscere e trovare sé stessi. In quest’ottica il romanzo di Matrone assume il carattere e la connotazione di un Bildungsroman e, come tale, diventa fortemente paradigmatico e profondamente etico. Altri nomi, come quello del nonno Orfeo, della nonna morta Euridice, del cane Argo, desunti dalla tradizione del mito, contribuiscono con il loro potere allusivo a creare un mondo magico, dove non esistono fratture tra passato e presente, ma continuità esperienziale e umana.

E che dire degli oggetti-simbolo con la loro inquietante ambivalenza, collocati e disseminati in punti strategici della fabula? Così l’armadio del cap. III, “mobile da trattare con curacome una persona di casa”, depositario di segreti, di verità misteriose, custode di altri oggetti che, nonostante l’apparente materialità, hanno un’anima di cui si può cogliere il respiro: “una chiave ricoperta di ruggine, una moneta d’oro, una piccola mano sinistra di marmo, una lucerna a olio a forma di barca (oggetti raffigurati anche in un quadro dello studio, che attira l’attenzione e l’interesse del protagonista), un libro dalla copertina marrone, di pelle, il diario di zio Lucio”, il cui ritrovamento dà l’avvio all’esperienza, proiettata al di là del tempo e dello spazio, di un altro ritrovamento ben più importante e fondamentale, per sentirsi parte del tutto.

La chiave aprirà la porta del tempo, la mano è la giustizia, la lucerna servirà a illuminare il cammino, la moneta a ritornare a casa, riattraversare quel tunnel “pronto a ghermire gli uomini e a trascinarli per sempre nel regno delle ombre senza tempo” e vincere la morte.

Anche gli animali hanno un loro simbolismo: così Argo, “lo spinone bianco dal pelo folto e duro” è contrapposto ad Attilio, “il gatto nero dagli occhi gialli”, pronto a fare da guida e a indicare la strada verso la Porta del Tempo, mentre compare e scompare con l’impercettibile rumore dei suoi passi felpati ora nella realtà ora nella fantasia; le galline, che hanno le ali, ma non sanno volare, rimangono attaccate alla terra, razzolando e scavando, “quasi a voler stabilire un contatto con  ciò che si nasconde sotto la superficie”; l’oca che, oltre a camminare sulla terra, scivola sull’acqua, è “al limite tra il volo invisibile, la terra, il sottosuolo, il mare e i suoi abissi”; il gallo, “identificato anche con il dio Priapo, indica la veglia, l’attesa, la morte e la resurrezione”; il serpente è “il genio domestico ed è simbolo beneaugurante del legame ininterrotto che c’è tra i vivi e i morti”; il gufo che canta fino all’alba è foriero di minacce incombenti, come il topo che fa un buco in un sacco di farina, o un cane nero che entra in casa all’improvviso, o la nuvola nera dei corvi che piomba repentinamente dal cielo; il corvo, che sbuca da un canneto e descrive nel cielo giri vorticosi, è un segnale, vuole essere seguito verso una meta ben precisa, stabilita dal fato, quello che “governa le ragioni segrete del male e del bene, della vita e della morte”.

Credenze popolari e simbolismi ricercati danno al tessuto narrativo una valenza antropologica e tengono alta quella suspence che affascina il lettore. Bianco, nero e grigio sono i colori dominanti, anch’essi con la loro valenza simbolica, ma c’è pure il rosso, del tramonto di sangue, insieme con l’oro; il giallo, del passato, del ritratto dei bisnonni e delle pagine fragili di quel diario ritrovato; l’azzurro di certi occhi; il verde, della dea Iside, la candida dea “creatrice di ciò che è verde”, “il cui colore è simile al verdeggiare della terra”, assimilata a Demetra e alla Vergine Maria, che a lei “deve l’appellativo di Stella Maris”. Anche le notazioni cromatiche rispondono a un disegno preciso e sono in grado di evocare sensazioni e provocare quell’illuminazione che “equivale a cogliere in un solo attimo ciò che a lungo è rimasto nascosto alla nostra debole vista… se l’anima si pone in ascolto e l’occhio si allena a percepire i segnali che ci giungono da lontano”.

Presenze mostruose e inquietanti si affacciano qua e là nelle  pagine del romanzo: le Majane, creature terribili, che urlano e ridono, streghe maledette annunciatrici di lutto e di morte; larve vaganti e lemuri giganteschi e immobili, proiezioni delle angosce e delle paure dell’uomo; voci che lacerano la notte; fantasmi incorporei e inafferrabili, per ciò stesso più sinistri e paurosi. Di contrasto, pur nella loro sacra ambiguità, la fattucchiera di Porta Nolana, “capace di togliere il malocchio o di fare le defissioni”,  ma anche di  “purificare, guarire  e fare miracoli”; la sacerdotessa di Iside, impassibile, serena e ieratica nel suo lieve ineffabile sorriso e nello sguardo penetrante.

Altri elementi contribuiscono a suscitare il senso del mistero, stimolando la curiosità e l’interesse del lettore, che ne resta avvinto e come ipnotizzato. Prima di tutto il silenzio, che non è semplicemente assenza di rumori (che anzi è carico di voci), ma capacità di ascolto interiore, avvertenza dei fremiti e dei battiti delle cose senza interferenze di memorie e di ricordi, solitudine di fronte alla vita e alle prove che ciascuno è chiamato a sostenere, nella consapevolezza che “nessuno può sostituirsi a lui, deve procedere con le sue forze”. L’espressione “il regno del silenzio”  rimanda ancora alla dimensione della morte, come la stupenda frase nominale “Un silenzio lunare.”, utilizzata verso la fine del cap. IV. La luna è l’altra presenza ricorrente, emblematica per la triplicità della sua essenza, creatura celeste, terrestre e sotterranea insieme: quando è attesa dal Vesuvio “carico di vigneti e di ginestre”, o splende magnifica sulla cima del vulcano e “riempie di poesia il cielo terso e amico di una notte estiva”; quando si poggia con un suo raggio sul ritratto di zio Lucio, o quando è imprigionata dal buio insieme con i brutti pensieri, o è raggiunta lontana dall’urlo rauco e sovrumano della iatromante Cuculla, o è ingoiata da una malefica cortina di nebbia insieme col cielo e le stelle.

Le stelle: quanta suggestione in quel loro “precipitare con guizzi tenui nel cielo limpido dell’estate”, o “piovere leggere nelle acque calme del golfo”, o in quel “lasciarsi inghiottire, una dopo l’altra, arrendevoli e stanche, dal chiarore tenue del giorno imminente”. Di delicatissima raffinatezza poetica “la fitta pioggia di stelle che illumina di scie bianche e fulminee il cielo d’agosto”, o “il cielo tempestato di bianchissime perle ammiccanti”; splendido il cuore che “schizza tra le stelle, rimanendovi impigliato”.

Poi il vento: “ci sono spesso la tramontana, lo scirocco, il libeccio, la bora, il favonio, il ghibli… che hanno il loro nome. Poi c’è il vento tempestoso, indefinibile, che potrebbe essere tifone, uragano, monsone d’inverno o estivo… Ci sono, infine, venti sottili di morte che attraversano la schiena, senza una ragione”. Il vento incute paura: spegne la fiamma della candela, immergendo le cose nel buio e nella notte; urla e il suo ululato ha un suono sinistro; è soffio di vita e di morte. È  un vento di tempesta a travolgere Marzio nel passaggio della Porta del Tempo, vortice o ciclone che con la forza di una misteriosa calamita lo trascina nel buio, come aveva già fatto con zio Lucio, a vivere un’avventura straordinaria e indimenticabile. E l’autore utilizza un’ampia anafora, per significare l’andata (VI cap.) e il ritorno (XII cap.) attraverso la Porta del Tempo: una tecnica di scrittura estremamente incisiva e pregnante che, mediante la ripetizione puntuale dei termini, vuole evidenziare e convincere che davvero “solo chi ha il coraggio di affrontare il buio riesce a vincere il Segreto della Porta del Tempo e a rinascere” (p. 104) oppure, questa volta con una variatio lessicale, “solo con un atto di fede si può entrare nel cuore impenetrabile e Segreto del tempo e vincere il buio” (p. 83).

Thánatos è il leitmotiv intorno al quale Pasquale Matrone costruisce la sua storia e fonda la sua meditazione di uomo, di filosofo, di artista e poeta, nel tentativo di esorcizzarne la negatività e la fatale necessità. “Nessuno è in grado di cambiare il corso delle cose. Tutto è segnato. Noi possiamo soltanto capire, se abbiamo luce a sufficienza nella mente. La vita e la morte sono le due facce della stessa moneta. Tutto quello che nasce si avvia a morire. E la morte non è il mostro che tutti pensano: fa parte del grande gioco dell’universo, dove le cose muoiono e nascono, senza fermarsi mai. Abbandonando le sue inutili paure, ogni essere vivente dovrebbe preoccuparsi di impiegare il tempo che la sorte gli ha assegnato per costruire un mondo più giusto, dove ognuno abbia la possibilità di cogliere i frutti meravigliosi della felicità e della gioia”.

Grande lezione etica, trasmessa attraverso l’incisività essenziale di frasi gnomiche e di pregnanti metafore. Libro testimonianza e messaggio di speranza, un invito a tutti e, in particolare, ai giovani “a dedicare al sorriso e alla gioia gli anni loro assegnati”, superando i mali del mondo e, “se pure non potranno cambiare neanche un piccolo granello di quello che nel destino è già scritto, dentro l’anima loro potranno realizzare un’opera grande e benefica per sé e per coloro che con essi condivideranno i giorni e la storia”.

Su Thánathos  vince l’Amore, quello che può addirittura trasformare il male e le sofferenze in “strumenti utili a procurare il bene e la gioia”, sulla base delle riflessioni di Epicuro riguardanti la felicità, quello che unisce in un solo abbraccio liberi e schiavi, in quanto accomunati dalla condizione umana, come dalle considerazioni del grande Seneca, quello sublime, l’unico “in grado di salvarci e di renderci giusti, virtuosi e liberi”, di cui parla S. Paolo nel meraviglioso Inno alla Carità. Un amore divino, che “rende leggeri e potenti come gli dei quelli che sanno amarsi”.

 

Dopo la lettura del romanzo di Matrone, ci si sente davvero più leggeri, più buoni, più liberi, coscienti di aver trascorso un evento eccezionale e desiderosi di rileggerlo, per trovarvi ancora, come in uno scrigno prezioso, tesori e risposte agli interrogativi più pressanti e drammatici, per guardarsi come in uno specchio, per ritagliarsi uno spazio di otium, che consenta il dialogo con la propria anima e permetta di salire il più in alto possibile, “abbandonando le attività quotidiane, quelle che ci vedono ogni giorno affannarci dietro cose futili e illusorie”.

L’autore, come sempre, riesce a significare questo senso di risoluzione e di equilibrio ritrovato con una scelta sagace di termini ed elementi e con la sua scaltrita perizia e bravura di narratore e scrittore. Se, infatti, nell’incipitun tramonto d’oro e di sangue stava per riportare il silenzio tra le pietre consumate e i cipressi dell’antico anfiteatro, ricoperto di gramigna e di sterpaglie”, dando l’impressione che qualcosa si stesse disfacendo e dileguando irrimediabilmente, nel finale c’è un raggio di sole, carico di speranza e di vita, a illuminare i cuori e le menti. Potenza fascinatrice e creativa della scrittura!

 

Maria Olmina D’Arienzo (scrittrice, docente, poetessa e saggista)

(Pomezia – Notizie, 2004)

D'Arienzo Maria Olmina - -

 
 
 
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