Giacomo Luzzagni

Nome: Giacomo Luzzagni
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Nato a Santa Margherita, in Sicilia, nel 1935, Giacomo Luzzagni è morto a Montemerlo, in provincia di Padova, il 25 aprile del 2009.

Poeta, intellettuale, studioso di antropologia, sindacalista e giornalista (ha collaborato, tra l'altro, con la rivista Scuola Italiana Moderna), sin da giovanissimo, ha lasciato la Sicilia per trasferirsi nel Veneto, sua patria d'adozione e terra in cui ha trovato l'amore, la dolcissima moglie Adriana  (collaboratrice operosa e poco incline ad apparire), e in cui sono nati i due figli, Maddalena e Natale. Insegnante elementare, aperto alla ricerca, alla sperimentazione e all'innovazione psicopedagogica e didattica, al termine della sua lunga carriera di maestro, vissuta come una missione e come un impegno civile non comune, ha fondato la rivista La Nuova tribuna letteraria che dura da oltre un ventennio e che, grazie all'impegno del figlio Natale, critico d'arte raffinato e geniale e di Stefano Valentini, direttore storico del giornale nonché saggista, critico e poeta, continua a vivere e a riunire, in una grande famiglia, intellettuali, scrittori e poeti di tutta la penisola. Insieme con la rivista,  Luzzagni ha fondato la Casa Editrice Venilia  il cui nome nasce dall'unione delle iniziali di Veneto e dalle lettere finali di Sicilia.

 

Galleria Fotografica di Giacomo Luzzagni

 

 

Prima dell'estate

di Pasquale Matrone

(articolo pubblicato su La Nuova Tribuna Letteraria)

Più volte, nella settimana prima di Pasqua, ho telefonato alla moglie e al figlio di Giacomo Luzzagni. Lui, questa volta, il cellulare non lo accendeva più: le sue condizioni erano peggiorate: non avrebbe avuto la forza di parlare. Esitavo, temevo di dare fastidio. Chi mi rispondeva, invece, pur rivelando amarezza e scoramento nella voce, mi ringraziava con garbo; mi ripeteva che la situazione era difficile, che gli avevano portato i miei saluti, che mi salutava a sua volta e che mi avrebbe chiamato, appena possibile… Aveva detto proprio così. Lottava contro il male inesorabile con tutte le sue forze, il vecchio leone, abituato, sin dall’infanzia, a battersi, a testa alta, con dignità, coraggio e fermezza per le cose in cui credeva.

   Durante i ricoveri precedenti, quando ancora il male non era diventato così devastante, ci telefonavamo spesso. Sapendo di fargli piacere e avendo voglia io pure di sentirlo, per l’affetto fraterno che ci legava, lo chiamavo quasi tutti i giorni. Era contento. Mi ripeteva: “Mi creda, è una gioia chiacchierare con lei: la sua voce mi giunge come una medicina…”

La mattina di Pasqua, mi trovavo nello studio, quando il telefono squillò. Era lui. Lo stupore m’impedì di rispondere subito. Mi disse: “Buona Pasqua, sono Luzzagni; sono tornato a casa: l’ho chiamata subito: questa è una delle mie prime telefonate: volevo sentirla e rassicurarla.” Balbettai parole di gioia, di compiacimento: ne ero felice, capivo ciò che sentiva in quel momento: sapevo cosa si prova quando si lascia l’ospedale e si ritorna tra i propri cari… La sua voce era limpida, robusta, come se, per una sorta di miracolo, il male fosse totalmente scomparso. Disse: “Quando ci si trova a doversi confrontare con la malattia, non c’è cosa più bella del calore di quelli che ci amano. Mia moglie mi è stata sempre accanto. Mia figlia, che lavora nello stesso ospedale in cui sono stato curato, non mi ha fatto mancare nulla: mi ha accudito come si fa con un figlio e con una competenza che ha superato di molto  ogni mia aspettativa. Natale, poi, mi ha accontentato: si è occupato della rivista: ha lavorato giorno e notte ed è riuscito a chiudere il nuovo numero in tempo utile: gli abbonati meritano rispetto: non potevo deluderli: la rivista è una parte di me… Oggi sarà un giorno bellissimo: staremo tutti insieme, figli e nipoti. Quando ci si ritrova tutti mi sento l’uomo più felice della terra...”

Qualche giorno dopo, di pomeriggio, ho avuto la notizia da Rosetta Mor: il male aveva vinto. Dopo quell’ultimo momento di gioia, Luzzagni si era aggravato. Non c’era stato più nulla da fare…

Chi lo incontrava per la prima volta e quanti si limitavano a considerarne solo la scorza non sempre erano in grado di scoprire la grandezza e la peculiarità dell’uomo e del poeta che, con umiltà, pudore e discrezione, Luzzagni celava sotto la corazza protettiva che aveva scelto di indossare. Un burbero; un orso; uno di poche parole; severo sino all’eccesso; uno che non le manda a dire;  un caratteraccio

Io ho avuto il privilegio, la fortuna e l’onore di conoscerlo sul serio, al di là della scorza protettiva, oltre la corazza. E giuro che era una persona sensibile, fine, capace di emozionarsi e di amare; un marito tenero e innamorato della compagna che aveva accanto; un padre premuroso orgoglioso dei suoi figli; un nonno che per i nipoti provava un affetto sconfinato…

A sostegno di quanto sto affermando, ho prove solide e inconfutabili che sento il dovere di offrire ai lettori come testimone diretto e che elencherò, alla rinfusa, senza incastonarle in un contesto ordinato, così come mi si stanno presentando alla memoria in questo preciso istante. Si tratta di cose che mi ha detto, da uomo a uomo, da lontano, quando ci sentivamo e, tra l’altro, mi ripeteva: prima o poi ci dobbiamo incontrare; la distanza è poca: prima dell’estate dobbiamo fare una bella festa con Valentini, Natale e gli amici: ci ritroveremo tutti insieme, e avremo, finalmente, il piacere di abbracciarci

Un giorno, dopo la morte di suo fratello, mi disse: “Durante i funerali, mio figlio Natale mi ha abbracciato e, per un istante, ci siamo guardati negli occhi. Nei suoi ho letto il grande amore che nutre per me. Non ci siamo detti nulla, non ce n’era bisogno. Gli occhi di entrambi hanno narrato un poema, in un solo istante. Più passa il tempo e più scopro le qualità di mio figlio: la sua scrittura è limpida e coinvolgente; le sue note di storia dell’arte rivelano acume e competenza non comune; si è innamorato lui pure della rivista; sono felice: sarà in grado di continuare, se mai dovessi ammalarmi o invecchiare troppo…”

Ne avrei ancora tantissime di prove, ma ne scelgo un’altra sola, una di quelle che più mi hanno toccato. Quella volta disse: “Tra i giorni più belli dell’anno, ci sono quelli in cui, in treno, mi reco nella mia terra di Sicilia, a Santa Margherita, dove sono sepolti i miei cari e dove mi è rimasta una piccola casa che per me vale più di una reggia. In paese, ritrovo i vecchi amici, quelli che sono rimasti… Starei giorni interi a sentirli parlare: sono in pochi ormai a conoscere e a usare la bella parlata maggaritana; i giovani neppure la conoscono; non hanno avuto il piacere di impregnarsi della musica che si sprigiona dal dialetto maggaritano.”

Carissimo Luzzagni, da laico qual eri, onesto e restio all’ipocrisia dei bigotti e dei bugiardi, sei arrivato al traguardo, portando con te incertezze e dubbi. Ora, finalmente, hai modo di capire come stanno le cose. E, se quel Dio che ha seminato dubbi e perplessità anche nei santi, esiste sul serio, lui sa: ti ha letto dentro e, stanne certo, se dovrà fare una scelta, preferirà i tuoi dubbi e la tua adamantina lealtà alle dichiarazioni fasulle e stolte dei tanti che, quotidianamente, ancora si ostinano a mentirgli…

Io, che di dubbi e di incertezze ne ho almeno quanti ne avevi tu, di una cosa sono certo: tu, da qualche parte, ci sei ancora. Quelli che ami non muoiono. E tu hai lasciato una copiosa eredità d’amore in tutti coloro che hanno percorso con te un segmento di strada e che hanno saputo guardare oltre la corazza.

Consentimi, ora, solo un rimprovero, dopo le parole che ho detto a tua difesa. Da te non me lo aspettavo: per la prima volta hai tradito una regola a cui, per tutta la vita sei stato fedelissimo: non hai mantenuto la parola. A Pasqua mi hai detto: “Prima dell’estate, ci vedremo: faremo una bella festa con Natale, Valentini e gli altri amici: ci ritroveremo tutti insieme, e avremo, finalmente, il piacere di abbracciarci…

Ma, da qualche giorno, è arrivata l’estate. E tu non mi hai chiamato…

Pasquale Matrone





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